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Ugo Guidi: la produzione giovanile e le prime opere - di Federico Giannini

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Quando si parla di Ugo Guidi, di solito si pensa alle sue realizzazioni a partire dagli anni Sessanta. Le realizzazioni su cui si è anche concentrata la quasi totalità della critica. L’Ugo Guidi delle figure “sproporzionate” e difficilmente scolpite nei loro dettagli, lo scultore in tensione verso il personale e il primitivo, l’artista del totem e del primitivo, l’autore che cerca di esprimere le sue sensazioni e non di rappresentare il reale.
Sembra quasi che la critica abbia dimenticato che gli esordi dello scultore sono stati caratterizzati da un modo di fare arte del tutto diverso. È ovvio che Guidi non trovava piena soddisfazione nelle sue primissime opere, ma si tratta comunque di una produzione interessante che vale la pena analizzare e proporre al grande pubblico, per il quale molte di queste opere sono ancora sconosciute.
Lezione Come è noto, Guidi frequentò la scuola d’arte e si iscrisse poi all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove lavorò a contatto con Arturo Dazzi, che si può ben definire il “maestro” di Ugo Guidi. Siamo nel 1931, è finita la stagione delle avanguardie, la stagione del futurismo e della pittura metafisica ed è iniziata invece da qualche anno la stagione del fascismo. Qualche anno prima si era formato il Gruppo “Novecento”: tra i suoi fondatori ci fu Achille Funi, che molti anni più tardi divenne un grande amico di Ugo Guidi. “Novecento” si proponeva come un movimento che riportasse l’arte su una strada per così dire “dritta”, riprendendo la via della tradizione, della classicità, della figuratività, che era stata abbandonata già da diversi anni dalle avanguardie. Il fascismo agli inizi aveva guardato con simpatia ai futuristi per la loro schiettezza, per il loro modo rivoluzionario di fare arte, per il loro anticonformismo e soprattutto per il loro secco rifiuto verso il perbenismo borghese.
Giovinetto Quando però cominciò a diventare un movimento politico di una certa importanza e finì col diventare un regime, volendo trovare una giustificazione ideale per il suo modo di operare, cercò di riallacciarsi alla tradizione, la tradizione classica, tanto che Mussolini intendeva il regime fascista come una continuazione in chiave moderna dell’impero romano. Anche l’arte quindi doveva adeguarsi a questi ideali, anche se i fascisti tolleravano le diverse forme di espressività. Tuttavia l’arte che trovava posto nelle pompose cerimonie patrocinate dal fascismo e nelle commissioni pubbliche era quella che si collegava alla tradizione, e un gruppo come “Novecento” suscitò da subito l’interesse prima e l’ammirazione poi da parte del regime, che proclamò “arte ufficiale” quella dei novecentisti. “Ritorno all’ordine”: questa era la parola chiave dell’arte fascista. Un’arte che cominciò quindi a penetrare anche là dove l’arte si faceva, ovvero le Accademie, che dovevano fornire al regime gli artisti che l’avrebbero esaltato con le loro opere. E se pensiamo che già l’ambiente accademico è tradizionalista e classicista di per sé, ecco che all’interno di esse le pitture che si spingono troppo “oltre” non possono trovare spazio.

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Prima fotografia: la "Lezione"
Seconda fotografia: il "Giovinetto"


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